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Il libro nasce dall'esigenza di chiarirsi le idee sui tempi e sui modi secondo cui sono nate e si sono sviluppate in Italia la cultura moderna e le relative mentalità sociali, un tema che è stato ostacolato, durante l'ultimo secolo, da due correnti di pensiero opposte, eppur convergenti. Una forte dispersione degli interessi è stata causata dal positivismo, che invita i ricercatori a concentrare la loro attività su settori analitici, circoscritti. Inoltre, una sorta di ostracismo verso la modernità è venuto dall'idealismo assoluto neohegeliano, che si è opposto al predominio del quadro sperimentale e problematico moderno, specialmente franco-inglese, ed ha rinnovato il provvidenzialismo statico dominante nell'antico regime. Chi vede nel reale il segno di una totale razionalità pensa di conoscere già la fonte delle vicende esistenziali, compito comunque limitato: infatti la Ratio universale non dipenderebbe da cause empiriche, che sono considerate incerte, contraddittorie, trascurabili. Poiché gli orientamenti neoidealistici e decisamente ottimistici si sono aggiunti all'indifferenza positivistica, ne è derivato che si è quasi spento l'interesse a capire le difficoltà vissute dalle società del passato, in particolare quelle dipendenti dall'espansionismo straniero. La scelta di trascurare questo tema è inquinante, poiché le conseguenze di quei disagi sono in parte ancora attive nelle attuali strutture mentali, e l'antico rancore tende a riemergere, poiché fu, durante molti secoli, ben motivato e profondo. La storiografia idealistica è portata a non dar fiducia alle diagnosi critiche formulate, dal '500 al '900, nonostante enormi difficoltà, dagli ingegni più penetranti e reattivi, da Machiavelli a De Ponte, da Campanella a D'Andrea, da Giannone a Dragonetti, da De Sanctis ad Antonio Labriola ed a Salvemini, e da molti altri, che pericolosamente, ed in modo molto efficace, riuscirono a dimostrare le sofferenze imposte dalla realtà sociale in cui vivevano. Erano vicende meramente esistenziali, che lo storico neoidealista trascura, poiché ritiene di poter conoscere, attraverso il «dover essere», le fonti trascendentali degli «imperativi categorici», ovviamente non empirici, ma a priori.